L'urbanismo tattico dimostra la straordinaria forza di pensare in piccolo in relazione alle nostre città.
Mostra come, con un po' di immaginazione e le risorse già a disposizione,
le città possono liberare il pieno potenziale delle loro strade

(M. Lydon, A. Garcia)

Tra le questioni più dibattute e rilevanti degli ultimi decenni troviamo senz’altro quelle di ‘urbanismo tattico’ e ‘mobilità sostenibile’, interconnesse tra loro e protese al miglioramento della vita delle comunità e dei singoli cittadini, così come al benessere del pianeta.

Il concetto di tactical urbanism prevede la partecipazione attiva dei cittadini nei singoli processi di progettazione e di pianifcazione, che si concretizzeranno alla fine in piccoli ma rivoluzionari sconvolgimenti del tessuto urbano. Nella maggior parte dei casi si tratta di interventi peculiarmente temporanei: questo sottolinea che la configurazione delle città è sempre in divenire e che le esigenze dei cittadini possono infuenzare questa azione condivisa e correggerla all’occorrenza. Tali spinte, che nella maggior parte dei casi partono dal basso, non necessitano di ingenti risorse per la loro attuazione: nella prevalenza dei contesti socioeconomici contemporanei, l’esiguità dei fondi a disposizione potrebbe portare ad una rinuncia al cambiamento, ma l’urbanismo tattico porta con sé il carattere dell’economicità come proprietà imprescindibile.

 

POSSIBILI DEFINIZIONI DI URBANISMO TATTICO

Sebbene molto specifche nelle loro differenze, le politiche di urbanismo tattico hanno tutte degli elementi in comune: si tratta infatti, come accennato precedentemente, di interventi temporanei, a basso costo, concepiti grazie al coinvolgimento attivo della cittadinanza.

Questo approccio si trova a doversi relazionare, spesso a contrapporsi, all’urbanistica convenzionale:

«il tactical urbanism è una risposta dal basso al normale processo di pianifcazione e di sviluppo delle città. Per i cittadini rappresenta un modo immediato per riappropriarsi o per riprogettare parte dello spazio pubblico. Per restituire spazio alle persone e toglierlo al degrado, all’abbandono o all’uso inefficiente di una risorsa scarsa come è il suolo e lo spazio pubblico. Per le associazioni del territorio rappresenta una modalità per mostrare l’efficacia e i risultati di alcuni interventi ottenendo così un consenso da parte degli organi decisionali e dalla società civile. Per gli amministratori pubblici e il governo locale è invece un modo per sviluppare buone pratiche in tempi brevi e con un occhio al portafoglio».

Ciò a cui si anela è sempre il bene comune, ed è la comunità che si rende protagonista nella ricerca di approcci nuovi ed efficaci. L’urbanismo tattico è essenziale ai fini di una rigenerazione urbana pianifcata ed efficace. La mobilità sostenibile, strettamente legata ai temi ambientali, promuove scelte che porterebbero a una maggiore qualità dello spazio pubblico, a vantaggio sia dell’ambiente che dell’uomo. Lo scenario in cui ci imbattiamo più spesso nelle nostre città è purtroppo gravemente diverso: molto spesso, durante i tragitti quotidiani, il pedone è vittima di un “percorso ad ostacoli fra auto parcheggiate sui marciapiedi o sulle strisce pedonali”. Il panorama urbano, che senza dubbio è in continuo mutamento, ha subìto i cambiamenti più considerevoli e radicali nell’ultimo secolo, che si sono imposti con arroganza causando una drastica alterazione dell’aspetto e dell’originaria funzione delle strade.

 

LA STRADA COME SPAZIO CONDIVISO A MISURA DI PEDONE

La civiltà nasce e si sviluppa grazie alla costruzione di città, il cui cuore pulsante già a partire dal Neolitico, e almeno fno all’invenzione dell’automobile, era la strada: uno spazio condiviso, un centro economico, sociale e di mobilità, per secoli promotrice di scambi e di relazioni di ogni sorta: «La strada non rappresentava solo uno spazio di risulta tra gli edifici ma una struttura a sé stante, costruita con uno scopo preciso».

La sua funzione era dunque molto diversa rispetto a quella attuale: ogni cosa, ogni azione, ogni nostro progetto sembra riesca a muoversi e ad andare avanti soltanto grazie all’utilizzo di automobili, senza le quali non riusciremmo ad immaginare né le nostre strade né le nostre giornate: “Le strade sono la spina dorsale delle città e rappresentano una grande riserva in termini di spazio pubblico”. Riuscire a sfruttarle al meglio non soltanto è un nostro diritto, ma dovrebbe essere un dovere di tutti: lo spazio che occupano appartiene a ognuno di noi, a ogni singolo cittadino inteso come persona in primis, e non come conducente o passeggero.

Matteo Dondé, architetto urbanista che da anni si occupa di temi legati alla pianificazione della mobilità ciclistica, alla moderazione del traffico e alla conseguente riqualifcazione degli spazi pubblici, dimostra
come la misura in cui pedoni e ciclisti non interrompono mai il fusso del traffico tramite l’utilizzo di sovrappassi e sottopassi, si riveli in realtà perdente. I dati delle congestioni del traffico, in effetti, ci dicono chiaramente che una soluzione simile non ha mai risolto il problema. La controtesi, che invece come vedremo ha dato e continua a dare ottimi risultati ovunque nel mondo e in Europa, è quella della moderazione della velocità: essa porta, contrariamente a quanto sembrerebbe immediato pensare, a una riduzione del traffico e alla condivisione della strada come spazio pubblico di relazione sociale tra una pluralità di utenti, nonché luogo di svolgimento di funzioni e attività (l’80% dello spazio aperto accessibile nelle nostre città è costituito dalle strade).

In altre parole, se per le strade ci sono bambini che vanno in bicicletta o che giocano a palla, se ci sono persone che passeggiano, la velocità e i tragitti delle auto dovranno essere ripensati privilegiando l’uso degli spazi aperti da parte delle persone. Inoltre, un aumento progressivo della popolazione dovuto al fenomeno dell’inurbamento che prevede il trasferimento in massa dalle campagne all’ambiente cittadino, mostra che da qui al 2050 sei miliardi di persone vivranno in città. È evidente che si tratti di un’emergenza che va fronteggiata il prima possibile.

Alcuni tra gli esempi più efficaci di strada come spazio condiviso, nati molto spesso grazie alle idee di singoli cittadini e poi approvati dal governo locale, sono:

Woonerf: si tratta di un fenomeno nato in alcuni quartieri residenziali della città di Delft (in Olanda), grazie all’iniziativa di alcuni cittadini che, volendo rallentare il traffico motorizzato, hanno concepito un sistema che mettesse al centro le persone anziché le auto. Il loro intervento, dapprima autonomo, consisteva nel rimuovere parte della pavimentazione, in modo da ostacolare il normale flusso del traffico, o comunque di rallentarlo. «Marciapiedi, piste ciclabili e corsie per auto perdono la loro conformazione usuale per lasciare posto a un’unica superfcie costituita da una pavimentazione continua. Questa viene modellata in modo da offrire uno spazio condiviso dove il pedone non è relegato al marciapiede ma può muoversi liberamente grazie a una serie di interventi che riducono la velocità delle auto (Biddulph, 2012). Piccoli dossi, gincane, aree verdi e un diverso disegno della pavimentazione sono solo alcuni esempi delle strategie utilizzate per guidare l’automobilista ad adottare velocità contenute»;

Play Streets: prima della comparsa dei veicoli, le strade erano un punto d’incontro privilegiato per tutti i bambini, per giocare, correre e incontrarsi. Essi videro sparire a poco a poco il loro spazio, ingoiato dalle automobili. «Per porre un freno a questa situazione, nel 1909 a New York fu ideato per la prima volta un piano di regolazione del traffico per fare in modo che alcune strade venissero chiuse in determinate ore della giornata, per lasciare che i bambini giocassero in strada. Si dimostrò una soluzione efficace, restituendo un po’ di vita e socialità all’interno del quartiere. [...] Nel 2011 l’iniziativa viene ripresa da un gruppo di genitori nella città di Bristol, in Inghilterra, dove dopo una breve sperimentazione la municipalità riconosce i vantaggi di chiudere certe strade di quartiere 3 ore a settimana per permettere ai bambini di giocare liberamente. Dal successo dell’iniziativa nasce un’associazione chiamata “Playing Out” con l’obiettivo di diffondere queste pratiche. Nel 2013 a Bristol si contano più di 40 playstreets”. Questa iniziativa è particolarmente efficace per contenere gli effetti negativi che i pericoli del traffico hanno sui bambini: recenti studi dimostrano come la paura degli incidenti freni la crescita dei bambini, ai quali non è più permesso muoversi in autonomia. Per converso, la qualità della vita dei più piccoli e degli anziani è l’unità di misura della sanità urbana – la cosiddetta città 8-80, vivibile sia da bambini di 8 che da anziani di 80 anni;

Open Streets: si tratta di strade o vie chiuse periodicamente al traffico per lasciare che la popolazione ne usufruisca per camminare, fare attività fisica, andare in bicicletta, giocare, incontrarsi. Uno degli esempi più famosi di open street è la “Ciclovìa” di Bogotà, iniziativa nata nel 1974, ma famoso è anche il caso di Seattle e delle sue “Bicycle Sundays”, che fu pioniere e fonte di ispirazione per altre città come New York, San Francisco e Ottawa. Nondimeno, un esempio nel contesto italiano è la città di Bologna ogni fine settimana chiude integralmente il centro – già parzialmente pedonalizzato e ztl – al traffico di automobili con i famosi T-days;

Parkmaking: l’idea nasce dall’artista statunitense Bonnie Ora Sherk, che decide di installare a San Francisco, in maniera temporanea, dei “parchi portatili”, cioè delle piccole aree verdi inscenate grazie all’utilizzo di tappeti d’erba, panchine, tavolini. «Un po’ arte e un po’ protesta, l’iniziativa di Sherk rivitalizzò aree urbane prive di carattere attraverso una “dimostrazione bucolica” di come piccole aree verdi possono cambiare il paradigma urbano». Questo movimento sarà di ispirazione per il Park(Ing) Day, un evento annuale in cui i parcheggi vengono convertiti in spazi di socialità pubblica per richiamare l’attenzione sull’enorme quantità di spazio dedicato alla sosta delle automobili.

Pavement to Plaza: l’esempio forse più famoso è quello di Times Square, uno dei siti più trafficati al mondo che è stato trasformato in una piazza pubblica: basta un po’ di arredo urbano, come tavoli, sedie e foriere realizzati con materiale di recupero, e qualche mano di vernice, affinché milioni di persone possano godere di questo spazio pubblico. Gli effetti positivi, successivi a queste iniziative, sono molteplici: non si tratta, infatti, soltanto di benessere mentale e di riduzione dell’inquinamento, ma anche di sicurezza e di vite umane risparmiate. «In seguito alla pedonalizzazione di Times Square, gli infortuni legati ad incidenti stradali del luogo sono diminuiti del 63%».

Guerrilla Gardening: consiste nel creare spazi verdi all’interno di lotti vuoti e inutilizzati delle città, solitamente in mezzo ad aree costruite. Il carattere fondamentale della guerrilla è la sua clandestinità: gli attivisti, che agiscono soprattutto di notte, si cimentano in opere di giardinaggio senza avere il consenso dell’amministrazione o dei singoli proprietari delle aree prescelte, con il fine di sensibilizzare la popolazione su temi legati all’ambiente e per rendere più verde il grigio assetto urbano. Tutte queste testimonianze di azioni intraprese e portate avanti con successo dimostrano quanto un futuro più ecologico e la concezione di strade senza macchine sia effettivamente realizzabile.

 

LA CITTÀ DEI 15 MINUTI

Un quarto d’ora è l’unità di misura che alcuni hanno ipotizzato per organizzare una città intorno a servizi e funzioni raggiungibili dai cittadini a piedi o in bicicletta entro quel lasso di tempo, con il pregio di riportare la città alla sua dimensione di comunità solidale.

Nel raggio di un quarto d’ora ogni cittadino deve poter raggiungere le scuole, i negozi, i servizi di base e tutto quello che giustifchi e renda confortevole l’abitare urbano, lasciando il più possibile a casa l’auto, puntando al più sui mezzi pubblici e sulla mobilità condivisa.

Tra gli artefici di questo modello citiamo Carlos Moreno, docente dell’Università della Sorbona, secondo il quale vi sono quattro dimensioni cruciali del locale: l’ecologia (giacché abbiamo bisogno di intercettare la natura, i parchi, i giardini, i boschi, ecc.); la prossimità; la solidarietà e la partecipazione, che vede il quartiere come luogo di cui prendersi cura.

 

LA CITTÀ 30 E LA SICUREZZA STRADALE

Mentre il resto d’Europa va avanti, adottando soluzioni di successo (come nei casi di Parigi, Bruxelles, Berlino, Budapest, Siviglia), in Italia nascono polemiche per l’apertura di nuove piste ciclabili. Di conseguenza, nel nostro paese ci ritroviamo quasi costretti ad aprirle sui marciapiedi riducendo gli spazi pedonali; altrove invece la ciclabilità porta a ridurre gli spazi dell’automobile.

Secondo una ricerca europea la macchina rimane parcheggiata per il 92% del tempo, in uno spazio pubblico che potrebbe essere utilizzato in maniera più proficua. Si trascorre un terzo del tempo di guida in cerca di parcheggio e in media i 5 posti dell’auto spostano solo 1,5 persone. Il 40% dei tragitti effettuati in auto è inferiore ai 3 km, il 60% non supera i 5 km. Questo uso potenzialmente superfluo dell’automobile, se ridotto, aiuterebbe chi deve utilizzarla in circostanze necessarie, contribuendo altresì a rendere più fluido lo spostamento anche del trasporto pubblico.

Zona30 gente contenta - Arch. Dondé

Abbiamo accettato socialmente l’illegalità della sosta (sulle strisce pedonali, in doppia fla, davanti alla scivola per i disabili ecc.) nelle nostre città. Lo spazio pubblico, oltre a essere già penalizzato a causa dell’eccessiva presenza di veicoli, è ulteriormente abusato da simili tendenze. Per contrastare questa attitudine, paradossalmente, Amsterdam ad esempio ha l’obiettivo di tagliare 1.500 posti auto l’anno fno al 2025, con lo scopo di scoraggiare del tutto l’uso delle auto e ridare spazio ai cittadini.

Questo modello di mobilità urbana in Italia fatica ad essere applicato in maniera diffusa. Tra le cause troviamo sicuramente dei problemi culturali: in Italia la strada è considerata di proprietà assoluta delle automobili. Le nostre città sono ancora caratterizzate da velocità eccessive e dal mancato rispetto dei limiti di velocità. Nel 2018, ad esempio, 313 su 612 pedoni che hanno perso la vita erano su attraversamento pedonale e i feriti sono stati 7.245. Solo l’11% delle vittime non ha rispettato appieno quanto previsto dal codice della strada e c’è stato un solo caso in cui una bicicletta ha ucciso un pedone, su 366 pedoni investiti e feriti. Si tratta di una vera e propria strage, alla quale non si presta la dovuta attenzione, e che anzi viene sottovalutata dalla stampa che la riduce da violenza stradale a mera casualità. Le conseguenze di tale incuranza sono autoevidenti: i dati del 2019 attestano 3.173 morti e 241.384 feriti – un ciclista morto ogni 31 ore (253 in tutto); un pedone morto ogni 15 ore (534); un moto/automobilista morto ogni 4 ore (2.105); 40 bambini morti. Un morto ogni 2,5 ore e un ferito ogni 3 minuti in media sono 9 morti e 661 feriti al giorno. Siamo tra i pochi paesi europei in cui l’incidentalità urbana continua a crescere. Questi dati, uniti ai costi inutilmente spropositati che ogni anno sono destinati agli incidenti e all’inquinamento da traffico (circa 32 miliardi di euro), dimostrano come il nostro sistema di gestione delle strade sia alquanto inefficiente.

Secondo i dati statistici rilevati dal Comando di Polizia locale del Comune di Modica nel periodo compreso tra il 01/01/2014 e il 31/12/2019, sul territorio comunale si sono verifcati 1190 incidenti stradali, con una media, quindi, di un incidente ogni due giorni. Otto di questi 1190 sinistri si sono rivelati mortali; hanno perso la vita, in tutto, dieci persone. Complessivamente, inoltre, si contano 975 feriti e tredici omissioni di soccorso. Per quanto concerne i mezzi implicati, invece, si registra che in 317 incidenti sono stati coinvolti mezzi a due ruote, in 165 dei mezzi pesanti e in 19 degli autobus. 

Da uno studio condotto dai ricercatori olandesi Piet Rietveld e Vanessa Daniel, emerge che il principale deterrente all’utilizzo della bici è la scarsa sicurezza stradale: il rischio di essere coinvolti in un incidente è percepito al punto tale da convincere molti potenziali ciclisti ad utilizzare l’automobile. La conseguenza è che in Italia ci sono troppe automobili in circolazione: sono circa 36 milioni (62 ogni 100 abitanti), cioè il 17% delle auto in circolazione in Europa, secondo paese con più automobili dopo il Lussemburgo.

La velocità è il fattore determinante della gravità dell’incidente. Ad una velocità di collisione di 80 km/h, le probabilità di decesso saranno del 100%; mentre ad una velocità di 20 km/h saranno del 10%. Per questo il modello che si sta imponendo in tutta Europa è quello della città 30, le cui componenti essenziali sono: bassa velocità e impossibilità di tenere comportamenti pericolosi, scarso traffico, significativa mitigazione dell'inquinamento acustico, abbattimento delle barriere architettoniche, libertà nell’uso dello spazio, inserimento di nuove funzioni nello spazio pubblico.

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