«Un paese non è un'accozzaglia casuale di abitazioni,
una sommatoria informe, fredda, di manufatti senza un filo che li connette;
al contrario, un paese è un artefatto complesso di architetture, di strade, vicoli, case;
una trama di memorie, relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate»

(V. Teti, D. Cersosimo)

 

La rigenerazione urbana è un processo complesso che, da un lato, mira alla ristrutturazione e recupero di edifci e parti di città e, collateralmente, alla generazione di nuove opportunità sociali per pubblici  differenti, promuovendo attività a sfondo sociale, servizi, centri di aggregazione, ecc. Se gestito in maniera intelligente, tale processo può portare ad avvicinare popolazioni diverse che abitano uno stesso quartiere, generando potenti processi di coesione sociale anche nei cosiddetti quartieri “in stato di bisogno” caratterizzati da una forte differenziazione sociale.

In molti casi si individua uno o più spazi fisici da rigenerare, abbandonati o sottoutilizzati, che fanno da “innesco” cambiando il volto di alcuni quartieri, spazi pubblici e aree urbane con la partecipazione attiva della comunità. In questo contesto, secondo l’architetto Renzo Piano è necessario rimettere al centro del progetto urbano i vuoti della città, che sono rilevanti come i pieni. Lo spazio fisico è un “innesco”, ma ciò che può essere prodotto è un cambiamento sociale e organizzativo. In questa prospettiva il lavoro di rigenerazione urbana diventa un lavoro di prossimità intesa come immersione nel contesto e allo stesso tempo di vicinanza ai suoi abitanti e alle sue istituzioni.
Con i processi rigenerativi si può generare un sano mutuo apprendimento tra società e istituzioni, che possono giocare un nuovo e potenziale ruolo, aumentando il rendimento degli interventi delle politiche sociali a beneficio dell’intera collettività e non solo di poche élite. Uno dei rischi delle sperimentazioni dal basso è quello di rigenerare spazi per comunità chiuse, a vantaggio di poche categorie sociali che tendenzialmente coincidono con le stesse che hanno agito per prime: solitamente popolazioni di classe media e con un buon livello di scolarità.

Riteniamo che un processo di rigenerazione urbana sia autenticamente pubblico se promuove l’accessibilità di pubblici diversi, se le sperimentazioni (spaziali e sociali) si aprono ad usi e fruibilità esterne e non della sola comunità che le ha prodotte, se è capace di produrre beni e servizi anche per chi non ha direttamente attivato tale sperimentazione; una questione quanto mai attuale se posizioniamo questo discorso all’interno di una progressiva riduzione degli spazi del welfare tradizionale.
Guardando al di là di Modica, assistiamo a sperimentazioni in cui assetto istituzionale e movimenti sociali collaborano secondo architetture inedite ed efficaci e ad altre in cui le istituzioni invece limitano la portata innovativa di alcune pratiche, di fatto imponendo alcuni funzionamenti o regolamentazioni che imbrigliano la capacità di azione dal basso.
I processi di rigenerazione urbana possono presentare alcune criticità, dalle quali è opportuno mettersi in guardia:

  • marketing istituzionale, quando le istituzioni si adoperano solo per motivi di immagine;
  • coinvolgimento di cittadini già attivi senza generare nuove forme di partecipazione e cittadinanza attiva;
  • gentrificazione, ossia un innalzamento dei prezzi immobiliari che a sua volta può generare nuove periferie espellendo gli abitanti originari da quartieri riqualifcati.

Secondo Elena Ostanel si può parlare di innovazione nei processi di rigenerazione urbana se essa diventa strumento (analitico e pratico) per modifcare le opportunità per le popolazioni più ai margini (cittadini immigrati, popolazioni rifugiate, nuove povertà) e quindi per costruire comunità più inclusive proprio in periferia.
C’è innovazione sociale se questi interventi producono e mobilitano attivazione sociale, assetti innovativi di governance e cambiamenti nell’accesso alle risorse sociali e spaziali; se i fenomeni di esclusione socio-spaziale sono defniti da diversi fattori contestuali che distribuiscono in maniera diseguale risorse e spazi, è chiaro come il concetto di giustizia sociale e spaziale riprenda senso in queste prospettiva. Porre attenzione (e quindi intervenire) sull’inserimento differenziato allo spazio abitativo, allo spazio pubblico e alla sfera pubblica, alle opportunità lavorative, nonché al reale coinvolgimento nei processi di policy, signifca agire in alcune dimensioni sociali e materiali che sono all’origine dei fenomeni di polarizzazione socio-spaziale ed esclusione.
Secondo quanto ci risulta, gli alloggi popolari a Modica allo stato attuale disponibili per l’assegnazione sono 3: per questi risultano 68 richiedenti, di cui 56 non idonei. Circa la metà dei richiedenti è di nazionalità non italiana. Giova ricordare, in proposito, che per l’immigrato in Italia la casa non è solo un diritto umano fondamentale ma la condizione sine qua non per un inserimento legalizzato: è importante ricordare che senza una casa non è possibile ottenere un regolare permesso di soggiorno e nemmeno il ricongiungimento familiare che, in un Paese dove l’immigrazione ha una sua storicità, ha una rilevanza sempre più signifcativa. Il reddito mediano delle famiglie immigrate – segnala il rapporto Caritas del 2014 – è solo il 56% di quello degli italiani. E circa il 25% degli stranieri è incapace di pagare con puntualità affitti e bollette contro – rispettivamente – il 10,5% e l’8,3% degli italiani. In generale la domanda abitativa degli immigrati si è inserita in un contesto dove gli alloggi sociali sono assolutamente residuali e vi è una quasi totale assenza di una politica pubblica per la casa e dedicata alle fasce deboli.
In conclusione, se con innovazione sociale intendiamo un processo capace di rivelare e rispondere a bisogni sociali mutati o non ancora risposti, anche creando nuovi servizi, è chiaro come sia importante saper incidere su quei fattori materiali che portano alcune popolazioni a vivere in contesti di esclusione. Se non intraprendiamo questo sforzo, anche se interveniamo “dal basso”, riusciremo a mettere in campo azioni piu spettacolari che di reale impatto.
Come scrive l’antropologo Vito Teti,

riabitare significa ricostruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, di favorire il ritorno di chi vuole tornare. Ristrutturare e recuperare immobili è solo un tassello della rigenerazione: senza un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà suffciente per consentire una vita dignitosa ai residenti e a contrastare il declino.


Alcuni esempi virtuosi di rigenerazione urbana:

  • Case di quartiere (Torino) → veri e propri spazi di comunità polifunzionali, che includono coworking, sportelli informativi, spazi di ascolto, laboratori artistici, teatro. Aperti tutti i giorni e dal mattino fino a tarda serata, sono degli spazi in cui progettare insieme interventi ed iniziative e in cui entrare in contatto con l’amministrazione comunale. Inoltre le Case di quartiere si fanno attivatori di percorsi di comunità e attivazione sociale, generando azioni di rigenerazione urbana in locali prima sfitti o sottoutilizzati.

  • Ex asilo Filangieri (Napoli) → la comunita dell’Asilo si descrive come una “moltitudine di artisti, operatori, ricercatori, studenti, lavoratori del settore culturale e liberi cittadini che ha occupato e rianimato con spettacoli, concerti, presentazioni di libri, assemblee e seminari quello che prima era un enorme spazio vuoto e privo di identita, sede dell’ennesima Fondazione soggetta all’esclusivo arbitrio del potere politico-partitico e ha sentito l’esigenza di contrapporre all’immobilismo istituzionale un processo costituente di autodeterminazione, generando una nuova possibile forma di istituzionalità dell’arte fondata sulla cooperazione, sull’autonomia e sull’indipendenza della cultura”

  • Polveriera (Reggio Emilia) → Il complesso Polveriera transita negli anni 2000 dal Demanio Militare al Comune di Reggio Emilia in condizioni di serio degrado che ne determinano un uso marginale per molto tempo: parcheggio, sede di associazioni, perlopiù senza utilizzo. Dopo un progetto di rigenerazione urbana attivato dal Comune, ad oggi la struttura di quasi 3.000 mq ospita nel capannone B servizi per il lavoro e la formazione, spazi laboratoriali artigianali e socio-occupazionali, spazi per la ristorazione, la sede del Consorzio Oscar Romero e di altre cooperative sociali in coworking; l’altro edificio, il capannone A, accoglie spazi di inclusione delle persone con disabilità attraverso servizi diurni e residenziali loro dedicati, spazi per servizi di mediazione sociale, culturale, penale, spazi civici a disposizione del quartiere e delle organizzazioni cittadine.

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